La Commedia dell’Arte, con i suoi testi ridotti all’essenziale, le maschere, i personaggi fissi, decreta il trionfo dell’attore, dalle cui capacità istrioniche dipende interamente il successo della rappresentazione.
Strappare all’attore la sua maschera ormai statica e ripetitiva, per restituire al volto umano la profondità e la grande varietà delle espressioni emozionali, è uno degli obiettivi della riforma goldoniana, che parallelamente rivendica la centralità del testo autoriale.
Alla fine dell’Ottocento prima la scoperta dei valori simbolici della realtà, poi la teorizzazione di una drammaturgia non-naturalistica, segnano la crisi del teatro borghese; e il personaggio tradizionale lascia la scena a una marionetta senza passioni.
Mentre si apre la stagione dei grandi registi, il corpo meccanico della marionetta, il movimento scenico del danzatore, l’aspetto emblematico della maschera allontanano dalla scena le emozioni e «l’umana imperfezione» dell’attore.
Mentre il moderno capitalismo riduce l’essere umano a funzione produttiva, sulle scene l’uomo, ormai spogliato della propria umanità e ridotto a pura presenza corporale, lascia il posto a una specie di robot: l’uomo-macchina.
In una prospettiva che si rovescia, laddove alla maschera veniva imputato di nascondere le emozioni e con esse la verità del cuore, oggi Dario Fo ne rivendica invece il valore di verità profonda: la maschera lascia parlare il corpo, e il corpo non mente.