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La letteratura al cinema

La morte a Venezia, di Luchino Visconti, 1971


Da un incubo di Aschenbach scaturisce l’impietosa sentenza che unisce l’arte e la vita: «puoi scendere nella fossa; l’uomo e l’artista sono ormai una cosa sola, hanno toccato il fondo insieme».

La morte a Venezia, di Luchino Visconti, 1971


Tratto dall’omonimo romanzo di Thomas Mann pubblicato nel 1912, il film di Visconti (Italia-Francia, 1971) ricostruisce efficacemente il clima di un’epoca – gli anni felici della belle époque – e le tensioni morali ed estetiche di quell’età di passaggio tra due secoli. Per gli intellettuali decadenti, il bello non ha più i caratteri razionali dell’equilibrio e della compostezza classica, ma attinge direttamente al morboso, al sinistro e a una sfrenata sensualità.

Nella letteratura, il gusto squisito per un bello ricercato e intenso si esprime nell’Estetismo. Il bello diventa fine a se stesso e cade il confine tra arte e vita. L’artista si allontana più che mai dal modello di vita borghese e costruisce la propria esistenza come “opera d’arte”.

È questa idea della sovrapposizione fra arte e vita che appare in scena, attraverso l’incubo di Aschenbach, che si vede in teatro sul podio del direttore d’orchestra fischiato e contestato dal pubblico, poi, in una sala attigua, attaccato aspramente dall’amico come artista («la tua musica è finita; è nata morta») e come persona («tu non hai mai posseduto la castità... se non da vecchio»).

Scarica qui La morte a Venezia, di Luchino Visconti, 1971

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