Tratto dall’omonimo romanzo di Thomas Mann pubblicato nel 1912, il film di Visconti (Italia-Francia, 1971) ricostruisce efficacemente il clima di un’epoca – gli anni felici della belle époque – e le tensioni morali ed estetiche di quell’età di passaggio tra due secoli. Per gli intellettuali decadenti, il bello non ha più i caratteri razionali dell’equilibrio e della compostezza classica, ma attinge direttamente al morboso, al sinistro e a una sfrenata sensualità.
Nella letteratura, il gusto squisito per un bello ricercato e intenso si esprime nell’Estetismo. Il bello diventa fine a se stesso e cade il confine tra arte e vita. L’artista si allontana più che mai dal modello di vita borghese e costruisce la propria esistenza come “opera d’arte”.
È questa idea della sovrapposizione fra arte e vita che appare in scena, attraverso l’incubo di Aschenbach, che si vede in teatro sul podio del direttore d’orchestra fischiato e contestato dal pubblico, poi, in una sala attigua, attaccato aspramente dall’amico come artista («la tua musica è finita; è nata morta») e come persona («tu non hai mai posseduto la castità... se non da vecchio»).
Scarica qui La morte a Venezia, di Luchino Visconti, 1971